La Galleria San Fedele nell’ambito del reading «Tras-figurare il mondo: lo sguardo di bambino»
- che avrà come conduttore l’attore Giacomo Poretti e per le letture la psicologa Daniela Cristofori - presenta una mostra che mira a raccontare attraverso trenta opere, fra pittura, grafica e scultura, lo sviluppo delle ricerche estetiche del Novecento ispirate al linguaggio dei bambini.
«Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt. 18,3) con queste parole risponde Gesù ai discepoli quando essi gli chiedono chi sia più grande nel Regno del Padre. Per entrare nel Regno, replica Gesù, non è necessario aspirare a grandi cose, doti o talenti, ma occorre ritornare bambini. Il bambino è compreso infatti nella sua capacità di accogliere, di essere malleabile, di rompere la rigidità degli schemi ai quali gli adulti sono vincolati. Ritornare come bambini significa desiderare di apprendere. E significa ritornare a fidarsi. A guardare le cose con sincerità. Con sguardo trasparente. Vivere una fiducia originaria, senza la quale non potremmo diventare uomini. Ciò significa avere uno sguardo attraverso il quale è possibile riconoscere la realtà nel suo essere dono, e ritornare ad avere uno sguardo sulle cose capace ancora di stupirsi, di meravigliarsi. Il bambino è colui che sa vivere il dono come una sorpresa immensa. È colui che sa accogliere la vita come un dono straordinario.Per questo motivo molti artisti, sin dall’inizio del Novecento, hanno ripensato al linguaggio dell’arte rifiutando la pittura tradizionale per ritrovare la dimensione primigenia e spontanea dell’atto creativo. Quella dimensione che contraddistingue appunto la sfera dell’immaginario infantile. La ricerca tradizionale era diventata per tanti troppo distante dall’uomo comune. L’esigenza disperimentare una forma d’arte spontanea, infantile, innescata in totale libertà, portò autori diversi, protagonisti altresì di movimenti diversi, a teorizzare un ritorno alle origini, all’estro di più piccoli, capaci di un approccio immediato con la realtà, senza filtri, per questo candido e incorrotto. Nel gruppo del Cavaliere azzurro, oltre a Kandinsky e alle sue riflessioni sulla forma inconscia data da un gesto connaturato, l’esperienza infantile fu vista da un autore come Klee come una fonte di ispirazione eccezionale, tanto da scoprire nei disegni del figlio Felix un repertorio unico di immagini e segni cui attingere per i suoi lavori maturi. Bidimensionali, sproporzionati, intuitivi, semplificati, fatti di forme geometriche e tracce sparse nel vuoto, gli scarabocchi del bambino furono modello di riferimento per capolavori assoluti firmati negli stessi anni da Mirò, Ernst, Chagall o Rouault. Anche Picasso, verso la fine degli anni Trenta, scoprì questo territorio sconosciuto e fecondo. «Quando ero bambino – disse una volta – sapevo disegnare come Raffaello; ma mi ci è voluta tutta la vita per imparare a disegnare come un bambino». In molti suoi lavori di carattere più intimo il debito nei confronti dell’universo fanciullesco è evidente. Lo dimostrano le due litografie con i ritratti dei figli Claude e Paloma, immortalati su una spiaggia della Costa Azzurra in un pomeriggio di sole e disegnati sulla pietra con le dita inzuppate di inchiostro. Ai primi anni quaranta risalgono poi le opere di Jean Dubuffet, padre putativo dell’Art Brut, che già nella definizione (oltre che agli aggettivi “grezza e brutale”) rievoca lo spumeggiare dello champagne, frizzante proprio come la fantasia dei bimbi. Per l’autore francese lo studio di una forma d’arte spontanea, liberata da qualsiasi retroterra culturale e ispirata alla creatività infantile, fu alla base delle sue opere animate di figure giocattolose, pupazzi tipici delle fantasie bambinesche, dagli occhi grandi e le bocche carnose. Il fascino schietto, sempre originale, di un mondo visto con gli occhi dei piccoli ha esercitato il suo potere seduttivo anche sulla ricerca estetica dei contemporanei. A partire da Fausto Melotti che, con i suoi teatrini d’ottone fragilissimo, ha raccontato, fra poesia e illustrazione, storie incantevoli e profonde, inventando fiabe ambientate in mondi filiformi e popolate di personaggi che, a sfiorarli, tintinnano come campanelli. Bruno Munari ha attinto ancora dal mondo puerile stimoli speciali per ideare, a sua volta, storie dedicate ai bambini, fra libri magici, giochi e invenzioni didattiche. Spetta invece a Enrico Della Torre, Valentino Vago e Hsiao Chin, il merito di aver creato, attraverso la pittura, un immaginario parallelo fatto di forme nuove, ninnoli e silhouette di personaggi astratti galleggianti nel cielo come stelle filanti. Maestro dell’incisione Della Torre lo ha fatto soprattutto con le sue figure geometriche che, animate da occhi profondi, assumono l’espressione di una creatura organica: triangoli e rettangoli diventano extraterrestri dotati di piccole antenne sottili. Partendo da iconografie semplici e familiari quali il libro, la sedia, la casa, la valigia, altri autori del calibro di Alfredo Casali, Ermes Bajoni, Mirco Marchelli, Gaetano Fracassio, Ezio Minetti o Giancarlo Soldi hanno siglato opere dove la sfera del divertimento si mescola magicamente con una riflessione più profonda sull’espressione dell’intimo, sullo sguardo innocente capace di vedere in modo lirico anche un brandello di quotidianità e di trasformarlo in poesia. Chiude idealmente il percorso un’opera site specific di Daniela Novello, giovane vincitrice per due anni consecutivi del Premio San Fedele, che ha scolpito nel piombo e nella pietra un drappello di burattini usciti dal palcoscenico del loro teatrino, omaggio raffinato ai burattini che lo stesso Paul Klee costruì a suo tempo per il figlio Felix con ogni genere di materiale, scampolo e gingillo.
Fino al 14 novembre 2009
Orario: 16.00 – 19.00
apertura dal martedì al sabato
chiuso festivi
- che avrà come conduttore l’attore Giacomo Poretti e per le letture la psicologa Daniela Cristofori - presenta una mostra che mira a raccontare attraverso trenta opere, fra pittura, grafica e scultura, lo sviluppo delle ricerche estetiche del Novecento ispirate al linguaggio dei bambini.
«Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt. 18,3) con queste parole risponde Gesù ai discepoli quando essi gli chiedono chi sia più grande nel Regno del Padre. Per entrare nel Regno, replica Gesù, non è necessario aspirare a grandi cose, doti o talenti, ma occorre ritornare bambini. Il bambino è compreso infatti nella sua capacità di accogliere, di essere malleabile, di rompere la rigidità degli schemi ai quali gli adulti sono vincolati. Ritornare come bambini significa desiderare di apprendere. E significa ritornare a fidarsi. A guardare le cose con sincerità. Con sguardo trasparente. Vivere una fiducia originaria, senza la quale non potremmo diventare uomini. Ciò significa avere uno sguardo attraverso il quale è possibile riconoscere la realtà nel suo essere dono, e ritornare ad avere uno sguardo sulle cose capace ancora di stupirsi, di meravigliarsi. Il bambino è colui che sa vivere il dono come una sorpresa immensa. È colui che sa accogliere la vita come un dono straordinario.Per questo motivo molti artisti, sin dall’inizio del Novecento, hanno ripensato al linguaggio dell’arte rifiutando la pittura tradizionale per ritrovare la dimensione primigenia e spontanea dell’atto creativo. Quella dimensione che contraddistingue appunto la sfera dell’immaginario infantile. La ricerca tradizionale era diventata per tanti troppo distante dall’uomo comune. L’esigenza disperimentare una forma d’arte spontanea, infantile, innescata in totale libertà, portò autori diversi, protagonisti altresì di movimenti diversi, a teorizzare un ritorno alle origini, all’estro di più piccoli, capaci di un approccio immediato con la realtà, senza filtri, per questo candido e incorrotto. Nel gruppo del Cavaliere azzurro, oltre a Kandinsky e alle sue riflessioni sulla forma inconscia data da un gesto connaturato, l’esperienza infantile fu vista da un autore come Klee come una fonte di ispirazione eccezionale, tanto da scoprire nei disegni del figlio Felix un repertorio unico di immagini e segni cui attingere per i suoi lavori maturi. Bidimensionali, sproporzionati, intuitivi, semplificati, fatti di forme geometriche e tracce sparse nel vuoto, gli scarabocchi del bambino furono modello di riferimento per capolavori assoluti firmati negli stessi anni da Mirò, Ernst, Chagall o Rouault. Anche Picasso, verso la fine degli anni Trenta, scoprì questo territorio sconosciuto e fecondo. «Quando ero bambino – disse una volta – sapevo disegnare come Raffaello; ma mi ci è voluta tutta la vita per imparare a disegnare come un bambino». In molti suoi lavori di carattere più intimo il debito nei confronti dell’universo fanciullesco è evidente. Lo dimostrano le due litografie con i ritratti dei figli Claude e Paloma, immortalati su una spiaggia della Costa Azzurra in un pomeriggio di sole e disegnati sulla pietra con le dita inzuppate di inchiostro. Ai primi anni quaranta risalgono poi le opere di Jean Dubuffet, padre putativo dell’Art Brut, che già nella definizione (oltre che agli aggettivi “grezza e brutale”) rievoca lo spumeggiare dello champagne, frizzante proprio come la fantasia dei bimbi. Per l’autore francese lo studio di una forma d’arte spontanea, liberata da qualsiasi retroterra culturale e ispirata alla creatività infantile, fu alla base delle sue opere animate di figure giocattolose, pupazzi tipici delle fantasie bambinesche, dagli occhi grandi e le bocche carnose. Il fascino schietto, sempre originale, di un mondo visto con gli occhi dei piccoli ha esercitato il suo potere seduttivo anche sulla ricerca estetica dei contemporanei. A partire da Fausto Melotti che, con i suoi teatrini d’ottone fragilissimo, ha raccontato, fra poesia e illustrazione, storie incantevoli e profonde, inventando fiabe ambientate in mondi filiformi e popolate di personaggi che, a sfiorarli, tintinnano come campanelli. Bruno Munari ha attinto ancora dal mondo puerile stimoli speciali per ideare, a sua volta, storie dedicate ai bambini, fra libri magici, giochi e invenzioni didattiche. Spetta invece a Enrico Della Torre, Valentino Vago e Hsiao Chin, il merito di aver creato, attraverso la pittura, un immaginario parallelo fatto di forme nuove, ninnoli e silhouette di personaggi astratti galleggianti nel cielo come stelle filanti. Maestro dell’incisione Della Torre lo ha fatto soprattutto con le sue figure geometriche che, animate da occhi profondi, assumono l’espressione di una creatura organica: triangoli e rettangoli diventano extraterrestri dotati di piccole antenne sottili. Partendo da iconografie semplici e familiari quali il libro, la sedia, la casa, la valigia, altri autori del calibro di Alfredo Casali, Ermes Bajoni, Mirco Marchelli, Gaetano Fracassio, Ezio Minetti o Giancarlo Soldi hanno siglato opere dove la sfera del divertimento si mescola magicamente con una riflessione più profonda sull’espressione dell’intimo, sullo sguardo innocente capace di vedere in modo lirico anche un brandello di quotidianità e di trasformarlo in poesia. Chiude idealmente il percorso un’opera site specific di Daniela Novello, giovane vincitrice per due anni consecutivi del Premio San Fedele, che ha scolpito nel piombo e nella pietra un drappello di burattini usciti dal palcoscenico del loro teatrino, omaggio raffinato ai burattini che lo stesso Paul Klee costruì a suo tempo per il figlio Felix con ogni genere di materiale, scampolo e gingillo.
Fino al 14 novembre 2009
Orario: 16.00 – 19.00
apertura dal martedì al sabato
chiuso festivi
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ciao!
C
ciao!
C