PELLE AYANO YAMAMOTO

Ayano Yamamoto dietro un apparente sguardo, se non assente per lo meno distratto, rivela nei suoi dipinti un attento spirito d’osservazione. La sua attenzione è un’attenzione del tutto particolare: nelle opere, infatti, si concentra su alcuni aspetti del quotidiano, sulla semplicità di alcune “piccole cose”, come le chiama lei parafrasando Gozzano, poeta che non conosce, ma che può essere rapportato ai frammenti haiku, invece, così radicati nella tradizione della cultura giapponese che per origine e formazione le appartengono. Si tratta di osservazioni, spunti dal quotidiano di vita reale che impressionano la sua memoria e dolcemente, soffusamente riemergono nei dipinti. Un lento processo di assimilazione, di metabolizzazione d’immagini è per l’artista l’unico e fondamentale strumento di conoscenza che avviene in termini prioritari attraverso la pittura. Un divenire puro e semplice, non supportato da più usuali strumenti utilizzati per raggiungere tali fini conoscitivi. Nel contesto creativo quel che oggi affascina maggiormente, è la possibilità per un artista o per un normale ricercatore di esplorare, per poi comparare, culture e mondi diversi. La scoperta reale consiste nel riappropriarsi con coscienza del senso naturale delle cose e, sostenuta da tale motivazione, Ayano persegue così la sua ricerca pittorica. Effettivamente la possibilità che abbiamo di spostarci o di collegarci anche solo virtualmente con mondi lontani, avviene ora più rapidamente e frequentemente. Ciò, senza dubbio, aiuta ma può costituire, allo stesso tempo, un limite se lo studio delle analogie e delle differenze tra culture, spesso ancora troppo banalmente contrapposte, viene meno dando adito a un superficiale e generico appiattimento dei dati che entrano gradualmente in nostro possesso. Risulta ulteriormente interessante, a questo proposito, considerare la proposta di Ayano Yamamoto che solo in apparenza sembra cedere a un’omologazione di contenuti come se ne vedono di vario tipo in giro per le proliferanti mostre. Al di là di tale superficialità di lettura critica, si ravvisa sempre nei casi migliori, come quello evidenziato dall’attuale esposizione, una notevole capacità di organizzare lo spazio della rappresentazione che, sia a livello compositivo che cromatico, rivela la chiara impronta orientale, così specifica ed essenziale soprattutto nell’arte giapponese. Nei suoi dipinti si riscontra un equilibrio, un bilanciamento tra gli elementi che canonicamente fanno parte del linguaggio pittorico: la preparazione degli sfondi delle tele, trattati solitamente con velature di colori a olio, ma anche in alcuni casi con l’acrilico, stesi con effetti di trasparenze cangianti alla fine fissati sulla tela grazie a una leggera patinatura di olio di lino che conferisce all’opera, come risultato finale, un’inedita e originale versione opaca, quasi a ricordo dell’antico encausto romano. Da qui si passa ai bilanciamenti delle immagini emergenti dagli sfondi sempre corrispondenti, con istintiva precisione e accortezza, all’esatta dimensione della tela. Non si riscontra mai una simmetria, ma tanti centri che ovviamente vengono da Yamamoto suggeriti e allo stesso tempo con cura evitati. Anche in questo l’artista pur adeguandosi a soggetti “occidentali”, è figlia della sua tradizione e per comprendere meglio quello che cerco ora di significare torna calzante una rilettura delle acute osservazioni tracciate da Roland Barthes ne L’impero dei segni, esattamente nel capitolo dedicato all’interpretazione urbanistica di una città, così emblematica nella cultura del Paese del sole nascente, come Tokio. Centro-città, centro vuoto è il titolo del capitolo in cui l’autore francese affronta l’argomento puntando sulla decifrazione, sulla sostanziale differenza tra la concezione della centralità della città ideale, prototipo delle città occidentali di pierfrancescana memoria, e appunto l’impossibilità di raggiungere tale centro in una città come Tokio dove alla fine lo straniero ci gira attorno, lo lambisce ma non lo può mai afferrare, violare in quanto sacro e abitato solo “ da un imperatore che non si vede mai, cioè, letteralmente, da non si sa chi.” Questa idea del vuoto che connota il pensiero zen e un po’ tutta la tradizione giapponese, si traduce nei più noti esempi artistici con evidenti valori di decentralizzazione della rappresentazione, aspetti che in tal senso erano utili già agli impressionisti per uscire dalle gabbie obbligate della visione prospettica tridimensionale – in vigore dal Rinascimento in poi - a unico centro o con più punti di fuga, sempre ben strutturali all’interno di un processo della visione che costringeva a seguire dei tracciati predeterminati. In questo caso anche nelle piccole cose, negli atteggiamenti occidentali che forse per la prima volta l’autrice scopre e cerca di afferrare e comprendere perché lontani dalla sua educazione e dal suo modo di vedere orientale, Ayano procede isolando tali percezioni in semplici particolari, in modo tale che chi osserva è chiamato a ricontestualizzarle e a reintegrarle all’interno della propria immaginazione come se fosse sollecitata a espandersi. In tal senso ci troviamo di fronte a tableaux vivants dinanzi ai quali il fruitore è chiamato con molta discrezione a partecipare e pertanto si tratta di dipinti destinati, come nei migliori esempi della storia dell’arte, a vivere una propria vita autonoma rispetto a chi le ha concepite. Nella visione delle opere di Ayano Yamamoto è bene lasciarsi andare a un viaggio dove impercettibili discrete sollecitazioni ci conducono a continue scoperte. Paragonerei, in tale accezione, i suoi dipinti, sia per la loro eleganza che per la loro implicita raffinatezza, frutto di un accurato progetto che si estrinseca nei bellissimi disegni che spesso “accompagnano” tali realizzazioni e che comunque sono anch’essi da considerarsi “opere” compiute e a se stanti , a certi percorsi suggeriti nelle architetture ideate da Carlo Scarpa che a sua volta, come Frank Lloyd Wright, amava e aveva compreso le raffinatezze dell’arte giapponese implicite nel semplice ma essenziale rapporto con l’elemento naturale. Ayano Yamamoto, quasi a siglare istintivamente questo particolare e stranamente connaturato rapporto tra il Giappone e Venezia, si addentra nei meandri delle sue calli cogliendone i momenti e gli aspetti peculiari della sua tradizione e cultura artistica, ma rimanendo sostanzialmente se stessa e del tutto indenne rispetto alla ripresa di una banale e stantia immagine oleografica. Anche in tal senso, all’interno della sua pittura, riusciamo a riscoprire gli autentici valori rivolti a superare un’arida dicotomia tra astratto e figurativo in cui si è inutilmente contrapposta molta critica contemporanea.

Saverio Simi de Burgis

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